Vino e Chiesa, la Sacra alleanza
di Michele Scognamiglio
Nel corso della storia, vitigni e vino hanno stabilito con gli “Addetti alla Fede” ed in particolare con coloro che occupavano le posizioni più apicali una particolare liaison che in molti casi ha contribuito alla loro tutela, alla loro diffusione ed anche al loro continuo miglioramento.
Basti pensare al prezioso contributo di recupero della vitivinicoltura ad opera dei diversi ordini monastici negli anni bui del Medioevo all’indomani della caduta economica, spirituale e sociale del Sacro Romano Impero, aggravata dalle continue distruzioni e dai saccheggiamenti in tutta Europa, ad opera di orde barbariche. Il vino è essenziale per la Chiesa, in quanto insieme al pane, diviene il simbolo assoluto ed immediato della celebrazione Eucaristica. A fronte di una povertà sempre più diffusa, di scarsi e poco efficienti mezzi di trasporto, la scelta più logica fu quella di impegnare i terreni dei monasteri in attività produttive per soddisfare le esigenze della comunità e rifornire le scorte dei Vescovati, autorizzando al contempo la vendita di eventuali eccedenze per rimpinguare le sempre sofferenti casse monastiche.
Dobbiamo proprio ai laboriosi fraticelli, il grande lavoro di selezione dei cloni, dei primi studi ampelografici e delle prime forme perfezionate di coltivazione e vinificazione, molte delle quali, tuttora adottate con successo. Il loro lavoro era ritenuto di grandissima importanza al punto che fino al XVIII secolo, in ogni monastero veniva nominato un Praepositus, un monaco di alto grado, curatore delle vigne e delle cantine. Ad onor di cronaca, va sottolineato che molte eccellenze del panorama vinicolo mondiale sono da ricondursi proprio alla dedizione dei diversi ordini monastici. Giusto per fare qualche esempio in casa nostra, all’ordine dei Cavalieri di Malta dobbiamo Bardolino, Soave, Valpolicella e i vini dei Colli del Trasimeno, ai Benedettini si deve il Cirò, il Greco di Tufo, la Freisa, ai monaci Scalzi si deve il Frascati, ai Gesuiti il Lacrima-Christi,
ai Cistercensi il Gattinara e la Spanna.
La produzione vinicola dei monacelli, spesso di qualità, porta inevitabilmente i religiosi fatti pur sempre di carne a cedere alle ..tentazioni, tanto che si è passati da momenti di totale proibizionismo, in quanto “il vino non si addiceva ai monaci” ad una sorta di benevola tolleranza, che in alcuni casi, tuttavia, poteva prendere ..brutte strada.
Ne è testimonianza tutta una serie di detti popolari, che spesso in maniera bonaria, in altri casi con una malcelata vena di maliziosità, descrivono il particolare attacamento dei confratelli al vino, non solo per le necessità di altare. “Bere alla cappuccina è bere poveramente, bere alla celestina è bere largamente, bere alla giacobina è bottiglia dopo bottiglia, ma bere in cordoncina (con allusione alla cintura di corda dei francescani conventuali) è vuotare la cantina”. Una necessaria regolamentazione alle abitudini alimentari degli ordini, compreso il consumo del sacro nettare d’uva, è di derivazione Benedettina e la si deve a San Benedetto da Norcia, Fondatore del relativo Ordine e che può essere considerato a giusta ragione, il patriarca del monachesimo occidentale.
Il Patrono d’Europa con una certa reticenza, riconobbe al vino un ruolo integrante dell’alimentazione quotidiana dei monaci in tutto l’Occidente, raccomandando in ogni caso di restare sempre fedeli al senso della misura e della discretio.
Nel suo Ora et Labora che stabilisce la Regola dell’Ordine, San Benedetto fissa una emina di vino al giorno, una misura intorno ai ¾ di litro da mescere ad acqua. Va anche precisato che difficilmente il vino veniva bevuto in purezza sia per evitare di appannare l’attenzione durante le preghiere che per favorire il risveglio dei libidinosi sensi. Era tuttavia permesso superare la misura stabilita per loco necessitatis, a causa cioè di particolari o momentanee condizioni locali come ad esempio in caso di scarsità d’acqua potabile, evenienza tutt’altro che rara all’epoca, in caso di intenso labor per placare l’arsura e la fatica dovute alla raccolta delle messi, alle operazioni di fienagione e vendemmia o infine per l’ardor aestatis, per mitigare la calura estiva. Ovviamente, sempre con il rigoroso invito a non eccedere. Non meno importante il contributo dei monaci nell’arte brassicola, della birrificazione.
Attraverso continue prove ed errori, riuscirono ad elaborare metodi e tecniche che permisero di migliorare progressivamente le loro produzioni birricole, fino ad ottenere eccellenze difficilmente eguagliate ai nostri giorni. “Vinum est donazio Dei, Cervesia traditio umana”
Martin Lutero
Per i monaci la birra così come il vino era necessaria per l’alimentazione quotidiana e oltre al consumo interno poteva anche essere venduta al di fuori dei monasteri, assicurando così ingenti entrate economiche che permisero in molti casi, l’abbellimento e l’ampliamento delle strutture religiose.
Tuttavia, il vino d’orzo, questo l’antico nome della birra, pur essendo prodotto in molte strutture cristiane, in particolare quelle dei Trappisti, i Cistercensi della stretta osservanza, non raggiunse mai la popolarità ed il profondo significato simbolico del vino presso le comunità religiose. Il motivo risiede essenzialmente nel fatto che per secoli, la birra è stata la bevanda preferita dai cosiddetti barbari, popolazioni a religione politeista, che veneravano cioè numerose divinità.
E così, per quanto possa sembrare esagerato, bere la bionda e schiumosa bevanda, agli occhi di taluni intransigenti ecclesiastici del tempo, era come partecipare a riti pagani.
Che baccettoni!
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