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Il Finocchio, da maratoneta a simbolo di conoscenza

di di Enzo Gambin

Il finocchio, da maratoneta a simbolo di conoscenza

Il finocchio è una pianta che intreccia profondamente la sua storia e la mitologia dell’antichità, trasformandosi in un simbolo di resistenza, forza e conoscenza. La ricerca dell’origine del suo nome ci conduce in un viaggio che affonda le radici nella Grecia antica, dove era conosciuto come “μάραθος” (márathos). Questo termine ha una connessione affascinante con la storia greca, grazie alla leggenda di Fidippide, il leggendario messaggero che corse dalla città di Maratona ad Atene per annunciare la vittoria dei Greci sui Persiani, nel 490 a.C.

L’“Etymologicum Magnum”, un lessico bizantino compilato intorno al 1150 da uno sconosciuto lessicografo a Costantinopoli, affermava: “Μαραθὼν ὁ τόπος ὅπου ἡ μάχη ἐγένετο, ἀπὸ τοῦ φυομένου μάραθου ὠνομάσθη.”, ovvero “Maratona, il luogo dove avvenne la battaglia, prese il nome dal finocchio che vi cresceva.”

Il ruolo del finocchio diventa ancora più affascinante nel mito di Prometeo, che trasportava il fuoco in un gambo di finocchio, come riportato da Esiodo (tra il 750 e il 650 a.C.) nella “Teogonia” e da Eschilo (525 a.C. - 456 a.C.) in “Prometeo incatenato”.

Anche se il termine greco “νάρθηξ” (narthēx), che indica il fusto cavo usato per trasportare il fuoco, non è menzionato direttamente, Eschilo scrive: “καὶ φλόγα κλεψάμενος νάρθηκι λαμπρῷ ἔκρυψε” (Eschilo, “Prometeo incatenato”, v. 110), che significa “E avendo rubato la fiamma, la nascose in un brillante gambo di finocchio.”

La pianta di finocchio divenne così un simbolo di questo atto eroico e del potere della conoscenza. Attraverso il “narthēx”, il fuoco, metafora della conoscenza, si diffusee tra gli uomini, illuminando il cammino della civiltà.

Quella che avrebbe potuto sembrare una semplice pianta aromatica si rivelò il mezzo con cui Prometeo sfidò il destino, trasformando un gesto di disobbedienza in un dono eterno.

I Romani, sebbene conoscessero il termine greco, adottarono il nome “foeniculum” che era già presente nelle lingue latine e italiche.

La radice latina “foenum” si riferisce al fieno e “foeniculum” ne è un diminutivo, che denota una pianta simile al fieno. Le foglie del finocchio, infatti, somigliano molto al fieno secco, e questa somiglianza nella forma e nella consistenza portò all’associazione tra i due termini.

Il medico romano Celso, 25 a.C. e il 50 d.C., nel “De Medicina” parla del finocchio come pianta digestiva e diuretica: “Foeniculum urinam movet et ventrem leniter resolvit.”, “Il finocchio stimola la diuresi e ha un leggero effetto lassativo.”

Nel Medioevo, il finocchio era considerato una pianta dalle molteplici virtù terapeutiche, Santa Ildegarda di Bingen, 1098 – 1179, badessa, erborista e mistica tedesca, incluse il finocchio nel suo trattato “Physica” come un rimedio per migliorare la digestione e la vista: “Chiunque mangi finocchio avrà una buona digestione e uno spirito lieto, perché dissipa le cattive umidità e rende gli occhi chiari.”

Nei manuali della Scuola Medica Salernitana, il finocchio era consigliato per alleviare problemi di stomaco, flatulenza e per aumentare la produzione di latte nelle nutrici: “Foeniculum vocat illa vocari / quo non vix aliud dare possit olere.”, “Il finocchio è così profumato che difficilmente si trova un’erba dal miglior aroma.”.

Pietro Andrea Mattioli, 1501-1577, medico e botanico rinascimentale, nel suo “Commentarii in Dioscoridis de materia medica”, elogia il finocchio per le sue proprietà diuretiche e per la capacità di migliorare la vista.

Nel Medioevo, il finocchio era usato come spezia e ortaggio, sia per insaporire piatti che per correggere il sapore di alimenti meno freschi, come la carne o il pesce essiccato. Il suo utilizzo si ritrova in diversi ricettari rinascimentali, tra questi il Maestro Martino, tra il 1430 – 1490, autore del “Libro de Arte Coquinaria”, che includeva il finocchio in diverse preparazioni, spesso abbinato a formaggi e insaccati.

Bartolomeo Scappi, 1500 – 1577, cuoco di papa Pio V, nelle sue “Opera dell’arte del cucinare” (1570), suggeriva di usare il finocchio per aromatizzare arrosti e piatti di pesce.

Probabilmente fu nel XV secolo che nacque l’espressione “infinocchiare”, derivata dall’uso di aromatizzare le pietanze con il finocchio.

Si dice che gli osti utilizzassero i semi di questa pianta per mascherare il sapore del vino di bassa qualità, ingannando così i clienti, questo espediente permetteva di vendere vino scadente come se fosse di buona qualità, facendo leva sulle proprietà aromatiche del finocchio per coprire eventuali difetti del prodotto. Nel Medioevo e nel Rinascimento, il finocchio, insieme al rosmarino e alla salvia, veniva utilizzato nei riti di esorcismo e protezione contro il malocchio, per tenere lontani spiriti maligni e streghe, una pratica simile all’uso dell’aglio contro i vampiri.

L’espressione “Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio” è diventata celebre grazie al film del 1983 in cui Lino Banfi interpreta un imbroglione che si finge un mago e recita questa formula in modo teatrale, la formula crea un effetto sonoro divertente e facile da ricordare, da allora, l’espressione è entrata nel linguaggio comune come modo scherzoso per riferirsi a rituali scaramantici o per esorcizzare situazioni sfortunate con ironia.

In passato il termine “finocchio” ha avuto un uso dispregiativo, negli ultimi anni, però, è stato in parte riappropriato ironicamente dalla comunità LGBTQ+. Alcune campagne pubblicitarie hanno giocato su questo doppio significato, come quella della compagnia di car-sharing “BlaBlaCar” che, nel 2018, ha lanciato lo slogan: “Finocchio non è un insulto”.

Negli ultimi anni il finocchio è entrato nelle poesie come nel “Finocchio” di Anna Rita Pincopallo, in particolare, esplora il ruolo del finocchio nella dieta con un tono leggero e quasi giocoso, celebrando le sue qualità benefiche:

Dolce buono e profumato

per la dieta un finocchio ho mangiato,

dicono che non ha calorie

ma solo fibre,

e che aiuta in molti modi il fisico...

La poesia è pubblicata su “PoesieRacconti”, nei versi, l’autrice ci ricorda l’importanza di questo ortaggio, non solo per il corpo ma anche come una piccola dolcezza quotidiana che si inserisce nella nostra alimentazione. Con Agostino Barletta, “Finocchietto selvatico”, troviamo una riflessione più intima e legata alla natura:

Dolci tenere fronde di finocchio

consacrate ad un’unica missione,

apprezzata senza dare

nell’occhio:

rimpinguare bruchi di macaone.

Da “Il Giordino dell’erba voglio”, il finocchio selvatico diventa un simbolo di discrezione e utilità, essenziale nel suo ruolo ecologico, ma invisibile e quasi umile nel suo operare.

Infine, la poesia di Carlo Ricci, “L’intenso sapore del finocchio selvatico... la parvenza”, ci invita a riflettere sull’incontro con la memoria e le sensazioni legate al finocchio, che è ben più di un semplice ingrediente:

Lassù in alto su quello scaffale

a man destra vicino al sale,

d’improvviso,

nel mio occhio traspare,

in una grande latta

secco e ancor vitale,

un fiore selvatico

Ricci intreccia l’esperienza sensoriale del finocchio con un viaggio nell’introspezione, riscoprendo la bellezza e l’intensità anche nei piccoli dettagli della vita quotidiana. Le poesie di Anna Rita Pincopallo, Agostino Barletta e Carlo Ricci, pur celebrando la semplicità e le qualità del finocchio, vanno oltre il piano culinario per toccare corde più profonde.

In esse, il finocchio diventa simbolo di resistenza e conoscenza, come nel mito di Prometeo, trasformandosi in un oggetto di riflessione poetica. Le immagini evocative, come il finocchio che rimpingua i bruchi o il suo aroma che traspare dai ricordi, ci ricordano come la natura, anche nelle sue manifestazioni più umili, possa diventare un veicolo di significati profondi.

Così, queste poesie non solo celebrano l’ingrediente nella sua forma più semplice, ma lo legano anche al concetto di resistenza, di crescita e di connessione con il mondo che ci circonda, invitandoci a scoprire la conoscenza nascosta nei dettagli della vita quotidiana.

Come un filosofo che trova la saggezza nelle piccole cose, così il finocchio ci invita a riflettere su ciò che spesso consideriamo banale, ma che racchiude in sé profondi significati di resistenza, crescita e connessione con la natura che ci circonda.

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