Erbette di primavera
di Enzo Gambin
Ti svegli e senti che l’aria è tiepida, inizia la bella stagione. Dove c’è un po’ di terra, spuntano i boccioli dell’erba Veronica, gli “Océti de’a Madòna”, poi le violette del pensiero, le viole mammola e le margherite prataiole, che arrivano a marzo e rimangono sino giugno. Fiori ed erbe, una meraviglia questa Natura, che l’uomo ha colto come grande opportunità per insaporire la sua cucina e mantenersi pure in salute. Così, quelle tante erbe spontanee possono diventare cibi gustosi, sani e nutrienti. E’ il tarassaco, “pisacan”, l’asparagina selvatica, “bruscandoli”, gli strigoli, conosciuti anche come “stridoli”, “carletti”, “schioppettini”, tutti ottimi se cotti e saltati in padella, vanno benissimo anche nelle zuppe, nei risotti, nei ripieni di paste fresche, nelle frittate e per fare la “farinata”. Ci sono poi le erbe della “misticanza”, spontanee o coltivate negli orti, dalla grande varietà di sapori, come il cicorietto, la valerianella o dolcetta, il caccia-lepre, la cresta di gallo, la pimpinella, i rapenzoli, l’erba san Pietro, il peverel o rosoline, in dialetto, che è la pianta del papavero, il cordone del frate, l’orecchio d’asino, sono tutte erbette tenere, da usare crude e condite con un po’ d’olio extra vergine di oliva, sale, pepe e aceto di vino. Il lattughino selvatico si utilizza da solo e, a differenza di quello coltivato, ha un profumo intenso, aspro e leggermente amarognolo, va lessato ed entra alla perfezione nei ripieni di pasta. Anche la borragine, un’erba fantastica dalle grandi foglie ruvide e ricoperte di peluria, va consumata sola e cotta in ripieni di pasta fresca, o in torte salate. Non dimentichiamo la melissa, dai fiori molto ricercati dalle api, un’erba ideale per preparare insalate, frittate, per arricchire macedonie, si abbina bene ai funghi. In primavera è facile trovare la menta agreste, aromatizza le bevande ed è perfetta per profumare tutte le verdure saltate in padella. Stuzzicanti sono i finocchietti selvatici, si mangiano crudi o cotti, e si prestano per semplici ricette, per lo più salate, e se ne mettiamo un ciuffo nelle zuppe, conferiscono aromi dolci e freschi. Con il finocchietto si prepara anche un liquore che è un ottimo digestivo. Un posto importante nelle tavole di primavera spetta all’ortica, colta, lavata e tagliata è una prelibata base per qualsiasi insalata, è pure ottima se bollita e ripassata in padella, o in ripieni per tortelloni e ravioli, o in frittate.
Se sono apprezzabili le erbe spontanee, non di meno lo sono i frutti selvatici, come le bacche del sambuco, dal color nero-violetto, ideali in risotti e crostate mentre, con i teneri rametti, si preparano fritture salate.
Quando il sole diventa Leone, si posso cogliere i frutti del corniolo, sono piccoli e rossi, da consumare freschi, ma si accompagnano ottimamente al bollito di carne, oppure per delle marmellate. Dell’uso commestibile delle erbe spontanee si hanno tantissime tradizioni orali e scritte, a iniziare dagli antichi egizi, poi i greci, dove alcune categorie di lavoratori facevano proprio i raccoglitori di erbe e radici ed erano chiamati “rhizotomòi”, ancora i romani, basti pensare che Plinio il Vecchio, 23-79 d.C., che, con la sua opera “Naturalis Historia” cataloga un numero enorme di piante raccolte e utilizzate come cibo.
Nel Medioevo l’assenzio, il crescione, il finocchio selvatico, la malva, la menta, facevano parte delle sedici piante officinali che non potevano mancare nell’“Orto dei semplici” dei Monasteri. Le erbe spontanee erano fondamentali per quei monaci dediti all’assistenza, servivano per nutrire e curare, e nacque la figura del monaco “infirmus”, da cui deriva il termine infermiere.
Nel Rinascimento la raccolta di erbe spontanee si fece più importante. Nelle cucine cinquecentesche si diffuse il “mazzetto di odori” e fu una novità, tanto che un secolo dopo, nel Seicento, l’uso del sale e delle spezie furono quasi abbandonati, perché i sapori erano dati dalle erbe aromatiche spontanee, o dai fondi rosolati e dalle salse che si ottenevano da queste, e costavano meno. Quella fu un’epoca veramente speciale per le erbe spontanee e favorì il nascere delle prime zuppe e delle paste ripiene, antenate dei tortellini. Raramente una zuppa si faceva con un solo tipo di erba spontanea, erano e tritate e aggiunte a metà cottura, dove già bolliva prevalentemente del pane raffermo, il termine zuppa, infatti, deriva dalla voce gotica “suppa” che vuol dire “fetta inzuppata”.
Le carestie, le pestilenze, le guerre, le calamità naturali, portarono sempre più le popolazioni a ricorrere all’uso dei prodotti spontanei della terra, principalmente le erbe, che durante eventi tragici, che impedivano anche lo svolgimento delle normali pratiche agricole, riuscivano a sfamare. Qui dobbiamo ricordare il quarto capitolo dei Promessi Sposi quando “ .. il padre Cristoforo uscì dal suo convento di Pescarenico, per salire alla casetta dov’era aspettato … ogni figura …. che vi apparisse, rattristava ….. La fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra stecchita, guardava innanzi, e si chinava in fretta, a rubarle, per cibo della famiglia, qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini potevan vivere.”
Queste necessità furono studiate dal medico fiorentino Giovanni Targioni-Tozzetti che, nel 1767, diede alle stampe un importante “De alimenti urgentia”, che tradotto da “Alimentazione in caso di necessità”, con un sottotitolo particolare “Alimurgia” dove descrive l’utilizzo delle erbe spontanee come alimenti di sopravvivenza. Interessante è poi la costruzione del termine “Alimurgia”, una parola originata da nomi greci, quali “alimos”, che toglie la fame, e “ergon”, lavoro, a significare che “la raccolta delle erbe spontanee è un lavoro che toglie la fame”. Nei decenni al termine alimurgia si è aggiunto il sostantivo greco phytón, pianta, il che ha dato origine alla “fitoalimurgia”, che indica sia lo studio delle piante a scopo gastronomico e sia un vero e proprio filone gastronomico. Negli ultimi tempi, con l’avvicinamento della lingua italiana a quella anglosassone, è sorto un nuovo vocabolo per indicare l’utilizzo delle erbe spontanee in cucina, il “foraging”, che allarga però l’utilizzo a tutto quello che prati e radure offrono come di vegetale commestibile.
Al di la di quanto possano esprimere le tendenze del momento affidiamoci ancora alla sapienza dai nostri antenati, che con efficacissimi nomi dialettali avevano già indicato le caratteristiche delle erbe spontanee, ci hanno passato ricette per la cucina e semplici usi medici e veterinari, mettendoci con i loro nomi anche in guardia dalle insidie di erbe tossiche. Se poi, nella realtà odierna, non si ha più la possibilità di spingersi alla raccolta di erbe, scovarle da qualche fruttivendolo, o trattoria locale, consente di avere sapori speciali, ben lontani da quelli cui siamo abituati.
q
Vuoi ricevere la rivista Taste Vin?
Scrivici