Il Taurasi celebra i cinquantanni
di Nino d'Antonio
La natura dei luoghi in Campania non è meno sconcertante delle vicende che ne hanno segnato la storia. In un’Italia da sempre fatta di staterelli, privi di spazi fisici e di rilevanza politica – ma pronti a farsi guerra all’insegna dei campanili – Napoli è la sola realtà a rappresentare per circa mille anni un grande regno che, da Civitella in Abruzzo, raccoglie sotto un unico vessillo l’intero Sud e la Sicilia. Una lunga vicenda che non è estranea alla coltivazione della vite, da ricondurre all’ottavo secolo a.C., con la prima colonia di Greci provenienti dall’Eubea.
I soliti Greci, verrebbe da dire. Quelli che hanno aperto la via alla storia del pensiero, alla poesia epica, all’architettura, al teatro, alla scultura, alla mitologia, fino al vino. Perché è da loro che ha origine l’avventura dei grandi vini in tutto il Sud, Sicilia inclusa.
Così la ricca varietà di viti in Campania, spesso geneticamente vicine, ha determinato nel corso dei secoli una situazione alquanto confusa. La quale è emersa in tutta la sua anarchia nel momento in cui si è dato l’avvio a una prima, seria indagine ampelografica, vale a dire a una sorta di anagrafe per l’identificazione e il confronto delle varie specie.
E’ possibile oggi un inventario di questo remoto patrimonio viticolo? In teoria sì, sempre che si tenga conto, a fianco all’espansione e alla fama di alcuni vitigni (Aglianico, Piedirosso, Fiano, Greco, Falanghina), delle tante perdite, dovute a varie cause, a partire dalla fillossera. Si ha così un quadro che oggi risulta abbastanza definito, anche se su oltre cento varietà sopravvissute, gli studi più recenti hanno preso in esame solo la metà dei vitigni.
Ne consegue che un discorso sui vini della Campania non può che muovere dalla sua particolare geografia, o meglio dall’anarchia del suo territorio che annulla qualunque distinzione fra pianura, collina e montagna, e alimenta una sorta di contaminazione che non è estranea alla diversa presenza delle viti e alle loro fortune.
Questo a non tener conto di fenomeni come il vulcanesimo e il bradisismo, che hanno da sempre interessato il territorio. Si pensi a Pompei e a Paestum, ma anche ai Campi Flegrei (da phlegràios, ossia ardenti), dove la sopravvivenza della Grecia e di Roma – con l’inevitabile corteo di miti, dal lago d’Averno alla Sibilla Cumana – s’incontra ad ogni passo.
A sezionare la Campania sulla base dei suoi vini, un posto d’onore spetta all’Irpinia. Che racchiude in sé tutti i caratteri di quell’anarchia geografica, con un campionario di vallate, dorsali, massicci montuosi, boschi e corsi d’acqua, in uno scenario di forte suggestione, che a nord sconfina in Puglia e a sud in Basilicata. Il territorio – almeno dal punto di vista della viticoltura – ha del miracoloso. I terreni sono ricchi di materiale vulcanico, che in molte zone costituisce l’intero spessore dello strato coltivabile, a sua volta ricco d’argilla e di potassio. Due elementi tra i più felici per la coltivazione della vite. L’argilla, infatti, cede a poco a poco acqua alle piante, per cui l’uva durante la siccità estiva matura meno rapidamente e con più equilibri.
Base di grandi vini, a cominciare dal Taurasi, l’Irpinia celebra il trionfo dell’Aglianico, il vitigno più diffuso in Campania. Esistono più cloni legati a una comune matrice genetica, ma l’uva non vanta caratteristiche particolari. La sua identità nasce solo nel momento in cui diventa vino. L’unico distinguo è dato dalle aree in cui il vitigno è allevato: Irpinia, Sannio, Napoletano, Costa d’Amalfi e Cilento. In un contesto piuttosto ristretto, l’Irpinia offre il trittico Taurasi-Fiano-Greco, i soli vini Docg del territorio. Il primo è figlio del famoso Aglianico, invecchiato per almeno quattro anni. Un Rosso fra i primi dieci in Italia, da meritare a suo tempo il riconoscimento e l’elogio di Arturo Marescalchi, fra l’altro fondatore dell’Assoenologi: “…. Sotto l’usbergo del mio rasposo carattere piemontese, devo asserire, domandando scusa ai miei Barbera e Barolo, che il Taurasi è il loro fratello maggiore…”.
Accostato spesso al Nebbiolo, quasi a volerne nobilitare le origini, l’Aglianico ha poco da spartire con il vitigno piemontese. E’ assai più ricco di antociani, ma manca dei profumi tipici del Barolo o del Barbaresco, entrambi figli illustri del Nebbiolo. Uva difficile da governare per la sua decisa forza, matura piuttosto tardi, e la vendemmia ai primi di novembre è di certo l’ultima in Europa. Spesso l’incertezza del tempo spinge ad anticipare la vendemmia, appena il frutto raggiunge un giusto grado alcolico. E’ una scelta che l’Aglianico non perdona. Il vino che nasce da uve non del tutto mature contiene un elevato indice di tannino, che ne altera gravemente l’equilibrio.
Anche se il Taurasi è il vino-bandiera dell’Irpinia, l’Aglianico da cui nasce è largamente presente in tutto il Sud. A cominciare dal Sannio beneventano, che vanta una Docg per l’Aglianico del Taburno, a quello del Vulture in Basilicata. Si tratta di vini con una loro sicura identità, per cui la ricerca di una comune matrice darebbe luogo a comprensibili diversità. “Non è questione di superiorità di un vitigno rispetto a un altro – mi dice un vecchio vignaiolo – ogni uva è come un brano musicale, che pur muovendo da un medesimo spartito dà luogo a una varietà d’interpretazioni”. L’area della Doc (e poi della Docg) di cui si celebra il Cinquantenario, comprende oggi diciassette Comuni e una lunga e suggestiva storia. A partire dagli anni Sessanta, quando la vendita del Taurasi era gestita da un pugno di mediatori (o sensali, come si diceva allora). Un vero e proprio monopolio, perché chi comprava e chi vendeva poteva farlo solo attraverso la loro opera. Naturalmente l’Aglianico, non ancora tutelato, alimentava una produzione senza fine, che veniva esportata non solo sui mercati del Nord, ma anche in Francia.
Poi, con gli anni, l’inversione di tendenza e la scoperta delle straordinarie potenzialità di questo vino. Sul fronte del grande riscatto, va riconosciuto l’impegno e la costanza dei fratelli Mastroberardino. Senza la loro strategia basata principalmente sulla minore quantità a vantaggio della qualità, non avremmo mai avuto il successo del Taurasi. E qui scatta l’antica questione, tuttora controversa. E’ il vino a beneficiare del nome del paese, o viceversa? Perché se il vino si chiama Capri, non è certo l’isola a trarne vantaggio, ma nel caso del Barolo o del Taurasi, il discorso cambia. Il paese deve tutto al suo vino, o meglio alla presenza di quella stazione ferroviaria di cui ha potuto sempre beneficiare. “La ferrovia per noi è stata tutto, mi dice Antonio Caggiano, storico produttore di un celebrato Taurasi. Senza la stazione non avremmo fatto un metro di strada. Perché non solo il nostro vino, ma anche quello dei paesi vicini arrivava e partiva da qui. Così, l’Aglianico di queste colline diventava tutto Taurasi, benché allora il nome non dicesse granché. O meglio, indicava solo il luogo di partenza. Al Nord lo compravano perché era robusto e longevo. E dava forza a vitigni piuttosto deboli, ma di sicura nobiltà”.
Fare quattro passi nel tessuto antico di Taurasi, riserva interessanti scoperte: la Torre normanna, il Castello, il Chiostro, ma soprattutto quella griglia di vicoli che dal centro salgono verso la parte alta dell’abitato, fino ad affacciarsi sulla valle del Calore. Il centro antico ospita una “rosa” di eventi per il Cinquantenario. Tutti ispirati da quel legittimo orgoglio, che lega il paese alla storia e ai destini del suo vino.
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ANAGRAFE DEL TAURASI
VINO-BANDIERA DELL’IRPINIA
Il Disciplinare del 2011 prevede che l’etichetta del vino debba essere Taurasi Rosso Docg. E precisa che l’eventuale percentuale di altri vitigni (Piedirosso in testa) non possa superare il 15%. Ma è tradizione consolidata che il Taurasi nasca da Aglianico in purezza. Che viene invecchiato per tre anni, di cui uno in botte di legno. La Riserva, invece, richiede quattro anni. Diciotto mesi dei quali, sempre in botte.
Le origini del vino risalgono all’età preromana e al vitigno detto Hellenico. D’altra parte, è romano anche il borgo. Il nome Taurasi, infatti, ci rimanda all’antica Taurasia, conquistata dai Romani nell’ ‘80 a.C..
Il territorio che ospita i vigneti si estende sulle colline della provincia di Avellino. Il Disciplinare prevede diciassette Comuni, tutti compresi fra i cento e i seicento metri.
La data simbolo nella storia dei vini irpini va ricondotta comunque al 1928, l’anno della riscossa dopo la devastazione della fillossera. Ma è il ’68 a segnare la nascita del Taurasi, ad opera dei fratelli Mastroberardino di Atripalda. Un evento destinato al rilancio dell’enologia locale, al pari dell’annata 1955 per il Brunello di Montalcino.
La produzione si aggira in media sul milione e mezzo di bottiglie, presenti su tutti i mercati europei e negli Stati Uniti. Il riscontro è sempre favorevole, e questo ha provocato qualche contraffazione prontamente individuata e combattuta.
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