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Solfiti e vino

di di Michele Scognamiglio

Qualcuno potrebbe legittamente chiedere come mai nel caso del vino che rappresenta un prodotto naturale per definizione, si ricorre in qualche modo alla “chimica”?

Sono in parecchi, coloro che rimpiangono ed osannano la genuinità, l’onesta spontaneità del vino “di una volta”, quando i nostri nonni e bisnonni, ignari di chimica, si accontentavano del vino che la Natura offriva, trovavandolo sempre e comunque buono.

Senza assumere posizioni intransigenti, occorre fare un tantino chiarezza.

Nella vinificazione su larga scala, a finalità commerciali è indispensabile avere una certa standardizzazione dei processi produttivi per garantire prodotti finali salubri e con caratteristiche organolettiche se non identiche, perlomeno sovrapponibili e facilmente riconoscibili.

Uno dei rischi più temuto dai “signori del vino” soprattutto nel corso della vinificazione è quello di una possibile contaminazione microbiologica indesiderata.

E’ noto che per ottenere alcol etilico dal fruttosio e dal glucosio dell’uva è necessaria una spontanea e naturale fermentazione alcolica ad opera di lieviti anaerobi (i più comuni sono quelli del gruppo dei Saccharomyces cerevisiae).

Ricordate il detto “piatto ricco mi ci ficco?”

Senza alcun trattamento, considerata la disponibilità di preziosi nutrienti, in primis zuccheri, non è possibile escludere che microrganismi indesiderati, possono autoinvitarsi al festino e condividere il “dolce bottino” messo a disposizione dall’uva.

Nel malaugurato caso si verifichi tale evenienza, prevarrà la crescita e l’attività metabolica di altre specie microbiche spesso aerobie il cui principale prodotto finale è l’ acido acetico, capace di dare segnali molto evidenti della sua comparsa.

In questo modo, il vino risulterebbe inevitabilmente alterato, vanificando l’intero ciclo produttivo con notevole aggravio di risorse economiche.

E’ importante ricordare che oltre alla fermentazione del mosto, sono diversi i momenti del processo nel corso dei quali può verificarsi una contaminazione indesiderata (botti, tappi, bottiglie...). Per questi motivi, nel corso del tempo l’industria vinicola, ha imparato ad avvalersi dell’utilizzo di tali efficaci antimicrobici (e non solo) per impedire l’attività biologica di pericolosi microrganismi nelle diverse fasi dell’intero processo.

Tali sostanze quindi, rappresentano in campo enologico, una sorta di antibiotico capace di inibire soprattutto la crescita di batteri lattici ed acetici, mentre i lieviti (come i saccaromiceti) sono molto meno sensibili alla loro azione.

Gli antichi Egizi ed anche i Romani, avevano già compreso le proprietà di tali sostanze e le sfruttavano abilmente per ripulire i tini dove il vino era posto a fermentare in modo da garantirgli stabilità e longevità.

A seconda della concentrazione utilizzata, anidride solforosa e solfiti possono esibire proprietà batteriostatiche (ostacolano la crescita dei microrganismi) o battericide (ne provocano la morte).

(n.b. Per garantire un’azione efficace su un ceppo batterico indesiderato è necessario aggiungere al mosto quantità minime di solfiti pari a 100 mg/l.)

Tuttavia, è bene ricordare che nella pratica, l’ anidride solforosa viene prodotta anche naturalmente dall’azione fermentativa dei lieviti Saccharomyces cerevisiae, che in questo modo rendono l’ambiente inadatto alla proliferazione di microrganismi competitors.

Ciò dimostra ancora una volta come la Natura cerca sempre di trovare una soluzione efficace da sola, senza pretenderla dall’uomo. Non tutti i saccaromiceti vantano questa capacità, ma alcuni arrivano a produrne quantità di tutto rispetto fino a 200-300mg/l.

Questo è il motivo per cui nel vino ed anche nella birra è praticamente impossibile escludere in maniera certa, tracce di anidride solforosa o di solfiti, in quanto conseguenza di un processo naturale.

Pertanto nel caso ci si astenga dal loro utilizzo appare più corretta la dicitura senza solfiti aggiunti piuttosto che non contiene solfiti.

(n.b. I prodotti che contengono concentrazioni superiori a 10 mg/l devono riportarne per legge il contenuto in etichetta)

L’impiego di anidride solforosa e solfiti in ambito vinicolo (solfitazione) oltre ad inibire le attività metaboliche di microrganismi indesiderati e la stabilizzazione del prodotto garantisce altri importanti effetti, quali evitare l’ossidazione del succo d’uva, facilitare l’illimpidimento del mosto e nel corso della vinificazione ottimizzare l’estrazione e del corredo aromatico delle uve.

Anidride solforosa e solfiti sono quindi in grado di preservare profumi, colore, durata e gusti dei vini, quindi, non va affatto demonizzato il loro utilizzo.

L’alternativa è diventare astemi.

Personalmente preferisco correre tutti i rischi possibili, e Voi?

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