Agosto... non ti conosco
di Ulderico Bernardi
E’ il tormentone dell’estate. Di ogni estate. Almeno da quando anche il nostro paese è entrato a vele spiegate nella società industriale. Perchè in Agosto l’Italia chiude per ferie? Ogni anno se ne parla. Le dotte disquisizioni sociologiche e gli ammonimenti degli operatori socio-economici rimbombano nel nulla. Plaff! E tutto resta come sempre. Autostrade sovraffollate, squilibri nei servizi, luoghi ameni degradati a carnaio balneare, col consueto corredo di cani e gatti abbandonati che conquistano spazi nelle disadorne cronache delle redazioni estive, neanche fossero degli anziani pensionati lasciati a vagolare da un negozio chiuso all’altro nella desolante solitudine delle strade metropolitane. Passa un anno, e si torna a parlare di vacanze scaglionate. Ma a nessuno passa per la testa che maggio, giugno, perfino luglio, o magari settembre dai toni delicati, siano mesi accettabili per lo svago e il riposo. Agosto è il mese imperativo per staccare. Tutti gli altri sono lavoro. Ma chi l’ha detto mai! Può accettarlo solo una società che si è dimenticata l’armonia, l’equilibrio tra i bisogni, che privilegia un attivismo sfrenato mentre cancella le ragioni della meditazione, del contemplare. Indispensabili, se si vuole progettare in termini umani, producendo cioè inizia-
tive che vedano lontano, nell’oriz-
zonte del progresso, dell’emanci-
pazione, della crescita della felicità possibile, e non solo entro i confini ansiosi dell’aumento di reddito. Tra i bisogni essenziali, per non perdere mai il contatto con gli altri, riconoscendo nelle relazioni sociali il senso del nostro vivere (nessuna persona umana è un’isola), è quello della convivialità. Ognuno in sostanza gode dei suoi momenti privati, ma nel contempo conosce la fame di far festa, di alzarsi al di sopra dell’ordinario quotidiano per volare nei cieli straordinari dove si respira a pieni polmoni l’aria dell’essere collettivo, popolati di amici, di possibilità di conoscenza e di scambio. Non sto parlando delle discoteche, o di qualche festa obbligata, quasi aziendale, dove la funzione è quella di rendere omaggio a qualche potente. No. Dico di quelle quattro chiacchiere in allegria, tra conoscenti, mangiando e bevendo insieme. E’ questo lo scenario dove la rappresentazione umana acquista il suo senso più vero. Senza ruoli da conquistare che non siano quelli della simpatia e della distensione. La vecchia società rurale e urbana, pur con tutte le durezze delle sue gerarchie, condivideva tra i ceti la voglia di festa. Naturalmente ogni classe sociale si saziava di relazioni a suo modo, secondo quanto consentiva il borsellino e la propria collocazione. I zentilomeni in villa, i contadini alla sagra del patrono. Nell’anno del Signore 1772 il Senato della Repubblica, naturalmente intesa come Serenissima, avviò un’indagine singolare: voleva sapere dai parroci e dai podestà dei domini veneti quali e quante erano le feste religiose che si celebravano nei singoli paesi. Risultarono cose turche. Stiamo parlando delle festività che si aggiungevano a quelle del precetto romano, per cui le cosiddette feste comandate - Pasqua, Natale, Pentecoste, etc. - si dilatavano a comprendere un numero incredibile di santi patroni, invocati chi per la peste, chi per la scrofola, chi per le malattie degli animali o quante altre disgrazie. Un caso incredibile era quello di Cividale del Friuli, dove c’erano 48 occasioni di celebrazione, tutte buone per abbandonare il lavoro dei campi e darsi ai sollazzi amicali. “...pochi”, annota un parroco, “attendono alle faccende di campagna, ma la maggior parte si dà preda alli giuochi et alle crapole, e sono più tosto Feste dedicate al demonio che alli Santi”. Un altro ancora segnalava che la maggior parte approfittava del santo o della santa per darsi “all’ozio, al gioco et alle ostarie”. Era il modo, per il popolo, di procurarsi le ferie, scaglionate. Tre giorni (tre santi) a gennaio, 2 a febbraio, 5 a marzo, e via così. Tutte opportunità per tirare il fiato e ricomporre il tessuto delle relazioni locali. Con l’intelligenza della necessità, i villici sapevano conquistarsi una piccola porzione di felicità. D’altronde, erano tempi in cui i santi e la Chiesa erano gli unici difensori dei poveri. E l’identificazione degli umili con la comunione dei santi si rifletteva perfino nel parlare di ogni giorno. Quando i nostri dicevano: “che siora Ana che ò!”, intendendo dire di essere pieni di fame (arretrata), facevano riferimento a una trasfigurazione laica di Sant’Anna, digiunatrice e protettrice degli affamati. Altri tempi.
Ma anche questa storia delle festività rubate, sotto il presidio (e il pretesto) dei santi, ci mostra come le capacità umane di gestire al meglio il proprio tempo siano sempre vigili.
Forse, se qualcuno si è perso, è l’uomo contemporaneo. Potrebbe far festa, con calma e bene, va a finire invece che fa del suo peggio per accrescere l’isteria, invece di placarla.
Comunque, buone vacanze a tutti.
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