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Cibo di strada

di Ulderico Bernardi

Ora li chiamano street food, mangiari di strada, ma in altri tempi erano molto più diffusi. E non si trattava di kebab o patatine fritte offerte in chioschi motorizzati.

Erano prodotti nostrani offerti da uomini e donne, che finivano per essere identificati col prodotto: Nane dei bògoi, Mariéta dei folpi, Gigio dei caramèi, Toni dei maron. Deambulavano di osteria in osteria, tollerati dall’oste che fidava in un incremento delle trincate da parte degli avventori.

Ma il loro regno era la strada pubblica, lungo i marciapiedi, sotto i portici di città, in piazze e piazzette.

Nelle stagioni l’offerta si di adeguava e i venditori si riciclavano.

Fenòci a quartini, limoni, il carrettino dei gelati. E alle fiere d’autunno la frìtola de siora Ena sempre calda! Come ammiccava il cartello esibito da una venditrice un poco briccona, anche se in età. Insomma è storia di sempre.

Quel che si può dire in proposito è che nei secoli il loro numero è venuto calando. Talvolta questi instancabili ambulanti hanno ispirato artisti di buona mano.

Nella città Serenissima, Gaetano Zompini, ne ha ritratti un buon numero, più di due secoli fa. Una raccolta intera di Arti che vanno per via nella Città di Venezia. Era nato a Nervesa, a quei tempi trafficato porto fluviale sulla Piave.

Lui stesso era uno zattiere, conduceva le zattere di tronchi tratti dai boschi cadorini e dal Montello verso la capitale dello Stato Veneto che ne aveva grandissimo bisogno, per farne le fondamenta dei palazzi e le navi in Arsenale.

Poi un giorno decise di fermarsi in città e di dar sfogo al suo estro artistico. Così, grazie a un agiato committente ci è stata trasmessa memoria dei tanti mestieri che si praticavano avanti e indietro tra calli e campielli. Una quantità. Chi aggiustava pignatte, chi affittava braccia e schiena per i lavori pesanti, chi accompagnava nel buio della notte, reggendo in alto un lume, i signori che uscivano dai teatri. A noi interessano, in particolare, i venditori ambulanti di cibi e bevande. Così troviamo l’incisione di almeno venti personaggi che esibiscono prodotti d’ogni genere. L’erbariòl, che, come si presenta nella strofetta illustrativa opera del Questini, mi son quel che …porto a Venezia ogni sorte d’erbazi ogni matina. E la serie continua con chi propone alle case zaleti, vovi, cape, late, foleghe e mazzorini, fritole, fruti, pesse, aseo, dolze de vedèo - Dolze de vedèo vago vendendo - Dopo averlo coto - E l’è sangue de manzo bon, e bèo. E, ancora, c’è chi offre la polentina: Quando la stagion fresca xe vesina - Ben caldo col botiro e col formagio - Mi vendo in sto caìn la polentina. E poi pollame, arance; semola.

Chi si aggira tra rii e fondamenta e lancia il suo richiamo: Da i primi de settembre in fin a magio - Che le piegore e vache va in montagna - Vendo puina smalzo (burro, in veneto antico) e bon formagio.

Infine, ecco i venditori di vino, porta a porta: El vin de le Casade e dei Mercanti - Nu travasemo a la stagion, che và, - E lo portemo a vender per contanti.

Un paesaggio sociale affollato, pieno di grida, per sollecitare le massaie/massère, che non avevano bisogno di perdere le ore nei supermercati. Con quel di più di umanità garantito dalle quatro ciàcoe che passavano tra l’ambulante e la donna di casa inframezzo alla trattativa.

Memorie dei tempi dove la comunicazione umana era diretta, e non mediata da telefonini e computer. Un mondo di voci, di odori, di parole nella lingua nativa, di sguardi, di gesti, che ha lasciato un gran vuoto nella socialità, in questo presente inaridito nei sentimenti.

 

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