Salta al contenuto principale
loading

I radicchi Veneti

di di Enzo Gambin

La storia dei radicchi veneti è in parte ancora da chiarire nei suoi aspetti evolutivi; inizieremo così a valutarne prima i momenti iniziali poi, in una seconda parte, lo sviluppo avuto.

L’origine e l’evoluzione di una pianta coltivata va studiata attraverso il suo progenitore selvatico che, nel nostro caso, è identificabile nella cicoria, erba molto comune e apprezzata fin dai primissimi tempi della storia umana. La cicoria, pianta spontanea, è presente praticamente ovunque, dall’Asia, all’Africa, all’Europa; a seconda dei diversi climi, si presenta con notevoli varianti, nelle foglie e nelle radici, ma sempre mangiabili. In tutte le culture le cicorie hanno rappresentato il cibo dei poveri, a cui si attribuivano pure proprietà curative. Decantate da Eraclide, medico tarantino del II secolo a.C., citata da Plinio il Vecchio, scrittore e naturalista del I secolo d.C., nel suo libro Naturalis Historia, la cicoria era indica come un’erba cara al fegato, che depurava il sangue e curava l’insonnia. L’appellativo cicoria sembra derivare da un antico nome arabo Chikouryeh, ma la questione semantica è controversa, perché potrebbe risalire al nome egizio Kichorion, dall’accostamento del termine Kio, “io”, e Chorion, “campo”, con il senso di “io cresco nel campo”. Gli antichi greci la nominavano “kichora”, dove “kicheo”, “io trovo”, e da “horos”, “altura”, anche qui con il significato “io la colgo sulle collinette”, forse perché questa pianta cresceva più abbondante su alture. Nell’antica Roma la cicoria era indicata come “intybus”, o “intybum”, termine che, secondo Plinio il Vecchio, aveva un’origine molto incerta e, chissà, forse tratta da “éntybon”, che individuava l’“erba scariola”, una lattuga selvatica. I botanici medioevali ripresero il termine latino “Intubum” e vi aggiunsero “sylvestre”, o “sylvestris”, ad indicare che nasceva spontanea. Questo nome rimase tale sino a che il botanico e naturalista svedese Carl von Linné, Linneo, 1707– 1778, ne classificò scientificamente il genere in Cichorium e la specie in intybus. Probabilmente tutte queste difficoltà di definire l’origine del nome stanno nel fatto che la cicoria, conosciuta e utilizzata da tutta l’umanità dell’origine dei tempi, è stata identificata con le tante parlate dei popoli che se fruivano per l’alimentazione o altro. In effetti, la cicoria è citata già nel Papiro di Ebers, circa 1550 a.C., ed è indicata nella Bibbia, Libro dell’Esodo, versetti12:8 “Se ne mangi la carne in quella notte; la si mangi arrostita al fuoco con pane azzimo e con erbe amare”, amare in ebraico “maror” che comunicano l’amarezza della vita in schiavitù.

Tra gli scavi archeologici di Pompei, che rappresentano una fonte eccezionale d’informazioni sulla vita quotidiana del tempo, si scopre che, per la cena dell’hora decima, che avveniva tra le 15.46 e le 17.20, poco prima del tramonto, sulle tavole comparivano olive e uova e, se la tasca lo permetteva anche pesce, carne e dolciumi, pure pane, frutta e numerose verdure, tra cui la cicoria.

Quinto Orazio Flacco, più noto come Orazio (I sec. a.C.), poeta romano mangiava normalmente a cena la cicoria, un piatto semplice caratterizzato dalla nota amara ed è consueto osservare che gli autori latini, come pure quelli medioevali, quando citavano la cicoria, la presentavano come un cibo molto semplice e sano.

Un crescente interesse verso il consumo delle cicorie arrivò all’inizio del periodo medioevale grazie alla Regola di San Benedetto da Norcia (480-547), che richiedeva ai suoi religiosi una tavola moderata, principalmente a base di vegetali. Con probabilità, da questa attenzione culinaria, è sorta l’interesse alla coltivazione delle cicorie. Certamente la passione, la creatività e la dedizione di quei monaci potrebbero aver dato origine a quella selezione di cicorie a foglie con screziature rosate. Nascevano probabilmente così i precursori genetici dei nostri radicchi veneti. Col tempo si affinarono pure le tecniche di coltivazione e, soprattutto, dell’imbianchimento, per rendere queste nuove cicorie più croccanti e saporite. Nel pieno del Rinascimento Pier Andrea Mattioli, 1501-1578, nella sua opera Discorsi sull’opera di Dioscoride, descrive le cicorie, una selvatica, che chiama picra, e una coltivata, dalle foglie strette e amare, che è sottoposta a delle tecniche d’imbianchimento, ottenute con coperture di sabbia e terra. Ottenute nuove varietà di cicorie, acquisite migliori capacità di coltivazione e diffusasi la pratica dell’imbianchimento mancava ancora l’affrancamento nel mondo letterario e scientifico del termine “radicchio” che, magari, era già utilizzato nelle parlate popolari e, con probabilità, associato alla funzione fondamentale della radice nel processo d’imbianchimento. In effetti, il nome Radicchio deriva dal vocabolo “tardo” latino di radicŭla, che è il diminutivo di radix, radice. Agli inizi del Cinquecento il termine Radicchio è già sdoganato nelle produzione letteraria veneta, lo si trova nell’opera, I Semplici, del primo direttore dell’Orto Botanico di Padova, Luigi Squalerno, detto l’Anguillara, 1512-1570, che scrive di un radicchio invernale “a foglie più larghe della selvatica per la coltura. Questa sorte non è altro che li radicchi che si seminano negli horti, la selvatica invece è quella che nasce in campagna... La seconda è la nostra cicoria in bianca, che si mangia al tempo dell’invernata”.

Si parla di radicchi anche nelle “Lettera sulle insalate” di Costanzo Felici, N.C. - 1585, medico e naturalista: “La cicorea o girasole o radicchi o grumi volgarmente, che intibus vien detto dà Latini, è molto apprezzata nell’insalata, così la sativa, como la silvestre e d’ogni tempo e bianca e verde e le sue radice e cotte e crude e fogli e cime, che a Roma chiamano mazzocchi, nell’insalate.” A metà del Seicento il canonico bellunese Giovan Battista Barpo, 1584-1649, autore di un trattato su “Le delizie dell’Agricoltura e della Villa”, stampato a Venezia nel 1634, riporta la tecnica dell’imbianchimento: “alcuni la trapiantano per averla più tenera, altri la legano come la lattuga o endivia, per farla bianchissima e tenera ... col lasciarla sotto la sabbia, o coperta con terra, canne, foglie, paglia di sarafino, o legata stretta; ma ancora meglio diventerà se verranno coperti i suoi piedi con piattelli o scodelle fatte apposta poiché, non respirando e non essendo toccata dall’aria, verrà come neve bianca, e questo viene stimato per bellissimo segreto.”

 

q

Vuoi ricevere la rivista Taste Vin?

Scrivici