Piemonte: dai lontani Vini Dolci alla nobiltà dei grandi Rossi
di B.B.
Fino alla metà dell’Ottocento, la produzione in Piemonte è stata in prevalenza quella dei vini dolci. Un retaggio legato ai rapporti commerciali con Genova e ai lunghi viaggi per mare cui erano soggetti i vini. Un’incognita che quelli dolci affrontavano meglio.
Poi, la rivoluzione del Barolo, sulla scia della scoperta di Oudart, ha invertito del tutto questa tendenza. Si aggiunga un profondo e radicato convincimento che un vino di eccellenza (e quelli piemontesi lo sono) non può prescindere da due concetti: terroir e cru. Insomma, vini prodotti con uve provenienti da vigneti ben localizzati (zolla per zolla, direi), che spesso finiscono poi per dare il loro nome al vino. Bussia, Lazzarito, Cerequio, Rocche, Brunate sono solo alcuni cru di Barolo, il cui paesaggio è patrimonio dell’Unesco.
Circa il terroir, non va inteso solo come uno spazio fisico, un’area ben definita e con irripetibili caratteristiche. Ma vuol dire storia, tradizioni, manualità, usi e costumi di chi vive e lavora quelle vigne. In una parola, il ruolo che ha l’uomo e il contributo della sua esperienza nel far vino.
Questo spiega come il celebrato Barolo possa ancora oggi aprirsi a due scuole di pensiero per la sua spiccata tannicità. Abbiamo così - da un lato - almeno cinque anni di affinamento per un vino deciso ma non troppo aggressivo; e, dall’altro, un Barolo più morbido e moderno, grazie all’uso della barrique anziché delle grandi botti.
Il vitigno più diffuso in tutto il Piemonte (e non solo, perché è presente anche al Sud, nel Cilento) resta il Barbera, che diventa femmina quando si fa vino. Pare che Canelli vanti da sempre la migliore Barbera, quantunque il vitigno sia stato per secoli confuso con altre uve. Per fissare una sua prima identità, bisogna arrivare al Cinquecento. Ma anche il nome dà vita a un contenzioso non del tutto risolto. Vino dei Berberi, usato un tempo come medicinale? O vino Bàrberus, dal latino medievale, nel senso di “irruento, aggressivo, indomito”, come i Berberi che da secoli corrono il Palio di Asti? Al di là del gusto per l’etimo, resta la massiccia presenza del Barbera in tutto il Piemonte.
Nel territorio delle Langhe (Alba), abbiamo Barolo, Barbaresco (altro figlio del Nebbiolo, nato nel ’60 dall’intuito e dalla caparbietà di Angelo Gaja), Dolcetto, Grignolino e Freisa. Tra i Bianchi, il Cortese, l’Arneis e il Moscato. Il Monferrato, invece, punta sul Barbera, Moscato d’Asti, Malvasia di Casorzo (anche Spumante), senza escludere Dolcetto, Freisa e Grignolino.
Citare tutti i vini piemontesi e i relativi cru darebbe luogo a uno sterile elenco. Si pensi che le sole Doc sono quaranta. Senza tener conto che uscirebbe mortificata la notorietà e la storia di molti vini, spesso legata al più antico patriziato sabaudo.
Tuttavia giova allungare un rapido sguardo sui Rossi, a partire dal Dolcetto, che è il vino più bevuto nelle Langhe. Un solo dato: l’80% della produzione è consumato in zona. Il nome purtroppo trae in inganno. Niente di amabile in questo vino, semmai, in tempi lontani, una vinificazione a bassi gradi, visto che era destinato soprattutto a dissetare i langaroli durante il lavoro nei campi. Il vitigno in purezza dà luogo a ben tredici denominazioni, fra le quali la più nota è quella di Alba.
Per il Grignolino, invece, l’areale privilegiato è quello di Asti e del Monferrato, dov’era conosciuto fin dal Medioevo come Barbesino. Il nome pare sia da ricondurre al termine “grigné”, che in dialetto indica i vinaccioli piuttosto abbondanti in quest’uva. Generalmente è vinificata in purezza, o al massimo con uve Freisa non superiori al 10%. Per la storia, è un vino che ha riscosso il plauso di Umberto I di Savoia, e – pare – di recente anche quello di Papa Francesco.
E veniamo al Freisa, altro Rosso con ancora tredici denominazioni. Si afferma nel Cinquecento, a dispetto di un prezzo che è il doppio di quello degli altri vini. Il nome, dal francese “fraise”, ci riporta al frutto del quale sopravvivono i sentori. Fino agli anni Ottanta è stato in genere vinificato in versione Spumante o “mossa”, per ottenere un vino beverino, abbastanza vicino al Lambrusco o alla Bonarda dell’Oltrepò.
Oggi, invece, è un vino “fermo”, di buon corpo e piuttosto asciutto. E’ un’uva – al pari del Grignolino – piuttosto difficile da vinificare, anche se per genealogia è più legata al Nebbiolo.
Dal quale però si differenzia per una maggiore presenza di tannini.
Per i Bianchi, un posto d’onore spetta all’Arneis, un vitigno originario del Roero, ma diffuso anche in Liguria e in Sardegna. Vino di spessore (oggi Docg), tanto da essere etichettato fino alla seconda metà dell’Ottocento come Nebbiolo Bianco, alimenta col suo nome una serie di ipotesi.
Tutte suggestive e intriganti. Arneis in dialetto vale persona scontrosa, ribelle. Ma anche estroversa e simpatica. Insomma, qualcosa che ci riporta alla complessità di sentori del vino, più vicino allo spessore dei Rossi.
Un discorso a sé meriterebbe la spumantistica piemontese. Un preciso segmento di mercato, nel quale ha pochi concorrenti. E qui è d’obbligo il nome di Carlo Gancia, che nel 1850 realizza uno spumante, metodo Champenois, da uve Moscato. L’Unità d’Italia è ancora da venire, quando questo signore di Canelli spezza il monopolio della Francia in fatto di spumanti. E’ una scoperta destinata a imprevedibili fortune e che non mancherà di aprire nuovi mercati ai vini piemontesi.
Personaggio irrequieto, Carlo è soprattutto animato da uno straordinario spirito di ricerca, e da una crescente curiosità in fatto di vini. Tanto che riesce a conciliare studio e lavoro, quest’ultimo presso un’antica casa di liquori torinesi, dove mette a punto una sua ricetta per l’affinamento e l’aroma del Vermouth, allora un prodotto assai di moda, non solo in Piemonte.
Poi verrà la Francia, o meglio Reims, nel cuore della terra del perlage. L’obiettivo è quello di “rubare” giorno dopo giorno i criteri e i passaggi di quella complessa vinificazione, che i Francesi chiamano la Methode Champenoise. E’ un’indagine resa più complicata dal fatto che lo Champagne nasce, come base, da uve Pinot Nero, un vitigno che non esisteva in Piemonte, e che Carlo pensa di sostituire con il Moscato, presente invece largamente sul territorio.
E’ un’operazione dagli esiti quantomai incerti, che dopo il suo rientro a Canelli, lo impegnerà per oltre quindici anni. Ma Carlo Gancia ha fatto assai di più. Anche se si finisce sempre per legarlo allo spumante da uve Moscato. Basti pensare che quando gli esiti della ricerca non davano i risultati sperati, Carlo fa arrivare dalla Francia barbatelle di Pinot Nero e Chardonnay e le impianta sulle colline di Canelli.
Di questa lunga e appassionata ricerca, sopravvive nel cuore delle Cantine Gancia, quella “polveriera”, che ha visto la nascita del primo Spumante.
Il nome è legato al fatto che allora le bottiglie, non ancora perfezionate, scoppiavano spesso con grande fragore. Le Cantine Gancia – due chilometri di camminamenti, cunicoli, contrafforti, volte a crociera – sono state inserite dall’Unesco fra i siti Patrimonio dell’Umanità.
Ma è la rete di piccoli e medi produttori, la forza della viticoltura piemontese. Una loro anagrafe porterebbe a scoprire quel mondo di affetti e di eredità familiari, che sono da sempre il patrimonio del vecchio Piemonte.
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