Silvia Canton: progetto Sughero
di Alessandra Radaelli
Silvia Canton fa tesoro della lezione di chi è venuto prima di lei e la rielabora nel suo linguaggio personalissimo, inserendo di fatto la natura – nello specifico un pezzo di sughero vergine – nella pittura e dandole di volta in volta il compito di interpretare se stessa oppure di farsi metafora di un mondo che sta mutando, o addirittura di farsi simbolo di un’umanità che ha voglia di tornare a sentirsi natura lei stessa. Il sughero l’ha chiamata un paio di anni fa. L’ha sedotta con la sua consistenza ruvida e irregolare, con la sua unicità e imprevedibilità. E lei ha voluto farlo suo perché conquistata dal suo carattere indomabile, dal fatto che inevitabilmente, decidendo di appropriarsene e di renderlo parte della pittura, lei avrebbe dovuto arretrare di qualche passo, cedergli uno spazio di manovra che avrebbe portato il lavoro su strade che lei stessa non era in grado di immaginare. Lo sceglie (e confida che in quel momento avviene una sorta di innamoramento) e poi lo taglia, certo. Lo modifica. Qualche volta lo dipinge, perché entri a confondersi nella materia pittorica, altre volte lo spennella di resina per conservare il più possibile dei residui vegetali (i residui di vita) che lo ricoprono. In certi casi decide di trattarlo con la polvere di ferro e di ossidarlo, per svelare un’identità ibrida, metallica, rugginosa, spiazzante. Ma la sua anima selvaggia e autentica resta intatta e leggibile. E poi ci sono le volte in cui il pezzo è così perfetto, così magnificamente già compiuto in se stesso, che l’artista decide di dare al sughero la priorità, di semplificare la narrazione pittorica e di fare che sia lei, la natura, a parlare lì con la sua voce più autentica. (Pensiamo a un’opera come Abissi, sinfonia di bruni trasparenti e colanti che ruotano intorno al frammento di sughero come se fosse stato lui stesso a imprimere il movimento al pennello). La natura vera che di fatto irrompe in maniera così violenta dentro una narrazione – anche questa – sostanziata di natura, non si limita a darci un resoconto, una suggestione. Silvia Canton non dipinge dei paesaggi con pezzi di paesaggio, l’operazione che compie è molto più complessa. Questo è un punto fondamentale. La fusione dell’artificiale – la pittura – con il reale – il sughero – non punta mai alla mimesi: qui piuttosto l’artificio si fa permeabile al vero, vi si abbandona, lasciandosi compenetrare da quel pezzo di realtà fino a identificarvisi. Quello dell’artista, dunque, non è mai semplicemente un racconto naturale, ma si rivela un percorso di consapevolezza all’interno di quella natura di cui ci parla, un’analisi che punta a recuperarne la storia fino alla sua elementarità primordiale e fino al dettaglio delle sue infinite e inesauribili metamorfosi. La sua evoluzione dal caos all’ordine. L’evoluzione del nostro pianeta e del nostro stesso essere. Quando si osserva un’opera come Crisalide, ad esempio, non si può fare a meno di vedere in quel nucleo d’oro che sta esplodendo un momento della creazione dell’Universo. E tuttavia lì, in quel solco dormiente nella terra bruna, c’è anche l’umile vita del seme, il suo cammino segreto per diventare pianta. Il macro e il micro, la storia millenaria e il segmento temporaneo di un secondo. L’introduzione dell’oggetto – quindi, di fatto, il passaggio dalla pittura alla tecnica mista – è per Silvia Canton il mezzo per dare ulteriore spazio alla sua sete di spessore e di realtà.
E la natura tridimensionale e materica delle opere non è soltanto un modo per saldarci al concreto, ma anche il pretesto per far scattare una sofisticata trappola per lo sguardo, che invade il nostro spazio, ci prende per mano e ci porta dentro, al centro del tutto.
(Estratto dal testo di Alessandra Redaelli: De rerum natura)
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