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Sipario autunnale

di Ulderico Bernardi

Sui campi cala il sipario autunnale. La stagione dei frutti è compiuta. Non molto bene la quantità, poca ma buona e sana l’uva, con le migliori premesse per essere splendido il vino. Ora, per i contadini del fine settimana, che curano l’orto e la vignola con intenzioni di fitness, spendendovi più sudore che in palestra, è tempo di meditazioni e ricordi. Memorie della campagna d’altri tempi, così diversa dall’attuale, nel paesaggio e nel costume. Strade bianche, siepi da “pantièra” (la rete per catturare gli uccelli), fossi e cavedagne, famiglie affollate, mezzadri e paroni, stalle in ogni casa. E furti campestri. Ecco un aspetto che oramai s’è perduto con i tempi grassi. Buona cosa, naturalmente. Vien da pensare ad una curiosa diversità di significato rispetto al presente. Oggi si parla di fast food per dire di un cibo preparato e consumato alla svelta. Ma anche in quei remoti tempi di quarant’anni fa in campagna s’usava il “cibo veloce”. Nel senso però che chi se lo procurava, senza pagare il conto, doveva sbrigarsi a tagliare la corda prima che il proprietario dei frutti pendenti, nient’affatto consenziente, anzi ostile alla gratuità, prendesse in mano la forca per inseguire il perfido consumatore. C’erano visitatori diurni, come i bambini e ragazzetti, che abbrancavano qualche grappolo d’uva per mangiarla a morsi col pane (poteva anche trattarsi di fichi, oppure noci e nocciole o altri frutti ottimi per companasegàr, ma il fatto di salire sugli alberi moltiplicava i rischi, che talvolta arrivavano fino alla schioppettata dalla doppietta carica a sale). Ce n’erano di notturni, che andavano al sodo. Nel senso di fare un buon carico, e non di fermarsi a quattro frutti ficcati in fretta in senc, cioè infilati dentro alla camicia. Questi consumatori abusivi, per usare un eufemismo, partivano da casa coi sacchi e la roncola tascabile (brìtola per molti veneti, brìtule per i friulani, britva per i croati). Andavano a panòce, per la polenta. O, ben prima del sorgoturco, falciavano di corsa le spighe cariche del grano, che poi a casa, con più calma avrebbero trebbiato usando la bicicletta, appoggiata all’insù, la sella e il manubrio sull’aia e le ruote all’aria, come mulino domestico attivato dai pedali del diffusissimo mezzo di trasporto. Così proteine e vitamine erano assicurate. Ahimè; per la sostanza, che poi voleva dire il grasso, la carne, la faccenda si faceva più complicata. E più grave il reato. Le razzie notturne nel pollaio non erano infrequenti, ma si era già in un ambito criminale più corposo. Rare erano invece le predazioni di bestiame grosso, bovini, suini, ovini. Anche se in qualche parte delle Venezie sussisteva una tradizione trasgressiva rivolta alle stalle. In Istria, fino al secolo dopoguerra questo reato era abbastanza diffuso. L’isolamento, la povertà della terra, la natura del territorio che comprendeva forre, boscaglie e altri luoghi impervi, vedeva ripetersi qui una situazione simile ad altre specifiche regioni italiane, quali la Sardegna, la Sicilia o la Calabria. Altri tempi. Oggi, la preoccupazione è rovesciata. Guai a consumare grassi! La carne è appena tollerata, e consumata in misura assolutamente inferiore rispetto a solo dieci anni fa. Mucca pazza docet. Si guarda con orrore ai fritti, con preoccupazione si fissano gli occhi che s’aprono sulla superficie del buon brodo d’anatra o di pollo. Perfino le parole concorrono a demonizzare il grasso. Dire che una barzelletta è grassa, vuol sottolineare la volgarità. Guai al burro, tollerato l’olio. Anche se qualche inversione di tendenza si nota. Qualche fetta di lardo profumato fa timidamente capolino sui vassoi di affettati alla moda. Per chi gradisce ancora il bollito la venetta translucida è garanzia di morbidezza. Perfino le modelle, le star della moda, riconquistano il diritto alle curve, nel tramontare delle filiformi anoressiche. Mentre si comincia a capire che c’è grasso e grasso. L’Italia dei prodotti tipici è in piedi, e ringrazia. Per decenni abbiano dimenticato, sprezzato, avvilito sostanze e prodotti che ci sono invidiati dal mondo. Ora, infine, l’olio d’oliva di buona e ottima qualità viene recuperando tutto il suo valore di alimento salutare. Si riscoprono antiche aree a vocazione olearia, anche nell’ambito delle Venezie, tra il Garda e le colline della pedemontana veneto-friulana. Il latte genuino, fresco, crudo per la confezione di formaggi delicati e gustosi, torna a proporsi sulla tavola dei consumatori avveduti, che intendono garantire al loro futuro la mancanza di fragilità ossea. Se è giusto tralasciare certi sughi e grassi animali inferiori, più adatti a impieghi non alimentari, una riconsiderazione dei grassi buoni, che insaporiscono e rendono più ghiotte certe pietanze, s’impone. Gli estremismi lipofòbici altro non sono che un’esasperazione e un attacco sconsiderato alle specificità gastronomiche che sono vanto della cultura alimentare italiana.

Vale per prodotti caseari, insaccati e quant’altro risulti dalla lavorazione delle carni.

Si può. E’ già accaduto con il vino.

Demonizzato sbrigativamente per un decennio, riaffiora alla consapevolezza del suo valore per conseguenza di stimoli venuti d’oltreoceano. Ma non lo sapevamo già da noi, e da millenni, che se non si abusa - come in tutte le cose - il vino è una parte importante e salutevole dell’alimentazione umana? Adesso “si scoprono” i vantaggi del vino rosso. E magari qualcuno ricorda ancora il detto nostrano: un goto de vin vanti ‘a menestra, e pa ‘l medego xé ‘na tempesta! Così vanno i tempi, che piuttosto di ammettere la sapienzialità di certe intuizioni delle culture tradizionali non esitano a umiliarsi in una servile esterofilia.

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