Il ritorno delle tradizioni
di Ulderico Bernardi
Vogliono prenderci per la gola, nell’ansia di proporre pietanze rustiche e vini ritrovati. Cose buone d’altri tempi, che poi proprio le stesse non sono, ed è giusto sia così, perché i gusti e le esigenze cambiano con i tempi. Anche se gli aromi evocativi, i sapori di famiglia, si ritrovano nella continuità come valore, infine ricercata. Quando, una quarantina d’anni fa, cominciai a scrivere e pubblicare saggi di vario genere, per richiamare alla consapevolezza quanti insistevano nel buttare via tutto, mobili d’osteria e di casa, parole e proverbi, mangiari e usanze, mi sentii dare del passatista, del nemico della modernità, di ostile al nuovo che avanza. Intanto il nostro mondo cambiava, e legioni di ex contadini, vignaioli, bovari, mezzadri, coloni, fittavoli affamati di terra, si trasformavano in artigiani fantasiosi, imprenditori innovativi, rivoluzionari della piccola economia che in breve avrebbero accumulato buona sostanza e procurato una ricchezza diffusa a tutte le Venezie. Nessuno sembrava chiedersi da dove fosse insorta tanta intelligenza creativa. Non si voleva ammettere che sgorgava da secoli di solida tradizione. Avvilita dalla sottomissione dei più e dall’arroganza dei pochi, ma pur sempre viva e capace di far fronte alle durezze delle epoche dominate dai paróni.
In pochi decenni si è passati dalla miseria dei repetìni e dei pisnénti alla dignitosa condizione umana, comunque sia, del presente. E già da un poco d’anni si torna a ricercare quello che s’era buttato alle ortiche: di pensieri, di oggetti, di sapienzialità nella coltivazione e nella trasformazione dei prodotti della natura. Dagli antichi vitigni autoctoni alle erbette spontanee dei prati, dai formaggi poveri alla polenta e alle zuppe dei crudi inverni di stagioni prive di termosifone. A tutto questo si dà il nome di “tradizione”. E in parte è vero. Anche se, va detto, sa più di operazione commerciale che di rinsavimento. Perché, come ricordava il grande Gustav Mahler, tradizione non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco. Quel nucleo essenziale di valori che ardono per l’eternità, nel far luce al cammino degli uomini.
La sopressa, i musetti, la pasta e fasòi, i mobili d’arte povera, con le sedie impagliate intorno a un tavolone di noce massiccio, sono pure testimonianze d’altri tempi. Ma ciò che conta davvero, a cominciare dal rispetto per le generazioni passate, i propri morti, gli anziani che ci vivono accanto, che sono i veri titolari di ciò che ora sembra piacerci tanto, sono i princìpi che hanno consentito a uomini e donne di accumulare, nei secoli, esperienze, conoscenza, amore per la terra, sentimenti. Stiamo parlando di valori. Ciò che fa di persone unite casualmente una comunità di destino. Stabili guide da seguire per apprendere e rinnovare la tradizione. Per mantenere acceso quel fuoco attorno a cui si riscaldano i nuovi arrivati (bimbi, genti d’altre culture) per diventare a loro volta produttori di nuova tradizione, che arricchisce l’antica. A questo riguardo mi pare si proceda in senso contrario, visto il tracollo demografico dell’Europa, che non ha più voglia di investire sul futuro, e lo dimostra rinunciando a fare figli. E quei pochi che vengono al mondo saranno indotti a credere che la tradizione si compra sui banchi degli ipermercati, sotto la voce “prodotti tipici”.
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