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La magia dell'arte e l'amore per il vino

di Nino d'Antonio

Al di là di ogni deprecabile eccesso, gli effetti del vino sono da sempre controversi. E non per la diversità dei giudizi, che pure ne hanno segnato la storia, quanto per il vino stesso che afferma e nega le sue peculiarità in un’alternanza di luci e ombre, che hanno dato vita a uno dei topos letterari più frequentati.

Così non sorprende che se da un lato eccita i desideri, dall’altro è protagonista nei riti sacri; accende la memoria, ma aiuta anche a dimenticare; rende sveglio l’intelletto o ne spegne le facoltà; guida le azioni o le imprigiona in un profondo torpore; facilita i rapporti sociali o risveglia latenti aggressività.

Il mondo classico vanta una miniera letteraria intorno al vino, che dai rituali al puro piacere non manca mai di essere esaltato. E’ il caso del Simposio, dove a partire dal VII secolo a.C, il vino è l’unica bevanda permessa, da gustare mentre si recitano versi e monologhi, in un contesto dal forte carattere sacrale.

Anche il teatro celebra il vino e i suoi antichi riflessi. Penso in particolare ad Aristofane nei Cavalieri:” Vedi, tutte le volte che gli uomini bevono, allora diventano ricchi, fanno affari, vincono i processi, sono contenti, aiutano gli amici. Su, portami un boccale di vino, fammi bagnare la mente, fammi dire qualcosa d’intelligente…”.

Il legame tra letteratura, filosofia, arte e vino non conoscerà flessioni neppure nell’età moderna. E arriva fino a noi, spoglio di ogni sacralità, ma più controverso e problematico. D’altra parte, dire vino significa avviare un confronto con la storia. E nella natura umana è insita la tensione a una trascendenza non religiosa, ma carnale e terrena, nella speranza di un temporaneo superamento delle miserie della vita.

Così se la stagione rinascimentale segnerà il trionfo del vino, grazie all’uomo che scopre la sua centralità e il pieno diritto a godere di ogni piacere, il Settecento, con il nuovo atteggiamento nei confronti della logica, porta gli Illuministi a non cedere all’ebbrezza, dannosa per la ragione.

La letteratura romantica è quanto mai generosa col vino. A cominciare da Leopardi, che nello Zibaldone riconosce al vino il potere di accrescere la lucidità della mente e di liberare la fantasia, ma soprattutto di allontanare dall’uomo la sua condizione di infelicità.

Poi, la crisi del Romanticismo apre le porte da un lato al Verismo, e dall’altro alla Scapigliatura.

Due fenomeni lontani dalla nostra tradizione letteraria, che guarderanno al vino con ottiche diverse. I Veristi per la sua antica e diffusa partecipazione alla vita di tutti i giorni, e quindi alle gioie e ai dolori dell’uomo; gli Scapigliati, come bevanda da alternare al verde assenzio, per una trasgressione ai confini del suicidio.

Verga indulgerà a lungo sul vino nelle pagine dei Malavoglia; e il bicchiere che Turiddu rifiuta in Cavalleria Rusticana, è un gesto che anticipa la tragedia. Con D’Annunzio, astemio, ebbrezza e sensualità s’identificano. Il vino si fa complice sapiente nei giochi d’amore.

Ma perché il suo ruolo si arricchisca di imprevedibili valenze, bisognerà che maturi la nascita di un nuovo “Io” letterario, con l’avvento della Psicoanalisi. Quando Svevo, Joyce, Kafka, Pirandello scopriranno le teorie di Freud. Il vino si carica allora di effetti sconosciuti e si scopre compagno privilegiato di chi è incapace di adattarsi alla realtà quotidiana. E’ questa la temperie del male di vivere di Montale, dell’inettitudine di Svevo, del labirinto di Kafka. La letteratura del secondo Novecento, da Pavese a Fenoglio, da Moravia a Pasolini, da Silone a Sciascia, ha rinsaldato l’antico legame col vino, e specie negli scrittori piemontesi ha dato pagine di sicura conoscenza (Fenoglio lavorò a lungo in un’azienda vinicola), prima ancora che di intensa poesia. E altrettanto vale per il teatro, a cominciare da Eduardo.

Per la pittura, il discorso è in apparenza meno complesso, ma non ha confini. Dall’affresco murale nella tomba di Nakhat a Tebe alla Cena di Emmaus a tutta l’iconografia impressionista, il vino è una presenza costante. Renoir, Degas, Toulouse Lautrec, Manet ne hanno fatto un elemento di primo piano nei loro dipinti.

E’ una tradizione che viene da lontano. Dalla Grecia di Zeusi, Parrasio e Polignoto alle pitture parietali di Pompei. Gli antichi chiamavano xenia quelle che noi definiamo “nature morte”, perché rappresentavano quei trionfi di frutta e verdure che il padrone di casa offriva in dono ai suoi ospiti. E la regola di ogni buon pittore era quella di rappresentare quei frutti con la massima fedeltà, ut natura poesis.

I Greci, invece, non furono tentati dal riprodurre la natura. Tema esclusivo della loro pittura è sempre e soltanto l’uomo, la cui figura domina a tutto campo. E anche quando i cibi e le anfore di vino faranno la loro apparizione sui grandi vasi di ceramica, costituiscono solo gli elementi di contorno in una scena dominata dall’atleta o dal guerriero.

Una scelta che peserà a lungo in quella scala di valori che accompagna il mondo dell’arte fin dall’antichità. La Natura morta ha occupato per secoli l’ultimo posto, dopo il mondo degli dei, la figura umana, il paesaggio. Bisognerà arrivare a Caravaggio e alla genia di artisti che da lui prende il nome, perché la pittura ispirata ai frutti, agli ortaggi e al vino acquisti una sua dignità e un suo mercato.

Il Seicento - dall’arte fiamminga agli esiti barocchi della Scuola napoletana – offre una straordinaria galleria di opere, che segnano il punto più alto della Natura morta. Da G.Battista Ruoppolo a Recco a Mercadante a Luca Giordano, Napoli ha costituito un sicuro modello.

Il vino continua ad avere anche nella nostra società – spesso così poco sensibile ai valori della natura – un posto di primo piano. Direi, anzi, che sta godendo di un’eccezionale popolarità, che ha favorito tra l’altro una sua migliore conoscenza. Non è questione di crescita dei consumi, ma di avvicinarsi al vino consapevoli di quello che c’è dietro. In fatto di territorio, di vitigni, di sana tradizione e di accorta tecnica.

Stiamo imparando a bere, ma soprattutto a renderci conto che il vino racchiude ed esprime una civiltà. Anzi più di una, visto che ha attraversato millenni di storia e una teoria di popoli, a partire dai tempi di Noè.

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