Dalla carruba al "Pane di San Giovanni" ai carati dell'oro
di Enzo Gambin
Il carrubo ha sempre simboleggiato il legame indissolubile tra l’uomo e la sua terra, tanto che nell’antica tradizione ebraica la festa Tu bi-Shevat, la ricorrenza ebraica per ricordare il ciclo degli alberi, il carrubo era la pianta più rappresentativa.
L’aspetto più meraviglioso del carrubo è legato a San Giovanni il Battezzatore, o Battista, perché, secondo la tradizione, il santo Profeta e Predicatore si nutrì di carrube, durante i periodi di preghiera nel deserto e nei suoi peregrinari lungo le sponde del Giordano.
Pur tuttavia il Vangelo di Marco e di Luca riferisce che: “Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, si cibava di locuste e miele selvatico”.
Si è sostenuto allora che il termine “locuste” corrispondesse ai frutti del carrubo perché la stessa parola greca Keràtion riportata nei vangeli ha il doppio significato di cavalletta e di carruba.
A dire il vero ancora oggi a Cufra, oasi della Libia sud-orientale, nella regione della Cirenaica, questi frutti sono noti con il nome di Locuste.
Ancora oggi, gli inglesi chiamano il carrubo “St John’s bread” ossia “pane di San Giovanni”.
Il carrubo entra anche nella parabola del figliol prodigo del Vangelo di S. Luca, versetto 16, il figliolo, sotto gli stimoli della fame “ … desiderava riempire il ventre con le carrube che i porci mangiavano, ma nessuno gliene dava..”
Ci si aspetterebbe che fosse il carrubo fosse stato posto sotto la protezione del San Giovanni Battista, invece, in Siria e in Asia Minore l’albero è dedicato a San Giorgio, tanto che le cappelle a Lui consacrate sono erette all’ombra della pianta.
Assieme all’olivastro, al terebinto e al lentisco, il carrubo ricopriva con fitte foreste sempreverdi delle regioni costiere del Mediterraneo e nelle zone collinari orientali sino al Vicino Oriente.
Il carrubo si ambientò anche su tutte le coste mediterranee ma, secondo un’antica leggenda greca, questa pianta nacque dal corno di un toro colpito da un fulmine.
Da questa leggenda si creò così il nome di Keratìa o Keratonìa e Keràtion il frutto, dove la radice Keràs ha il significato di corno, e keraunós di fulmine.
I latini, invece, chiamavano Siliqua, con il significato di baccelli, mentre tutti i nomi europei del carrubo derivano dal termine arabo al-Kharrūb, probabilmente perché gli arabi ritenevano che tutti i semi del carrubo avessero la particolare caratteristica di avere sempre un peso costante, 1/5 di grammo, così utilizzarono per primi i semi detti karat, carati, come unità di misura dell’oro, che si associò al nome della pianta.
Plinio il Vecchio, 23 – 79 d.C., affermava nella sua “Historia naturalis” affermava: “… a siliqua, la quale in Ionia si chiama Ceraunia, produce il frutto, come il fico nel tronco suo, come il fico detto di sopra e per questo alcuni la chiamarono fico d’ Egitto pigliando in ciò magnifico errore. Perciò ch’ella non nasce in Egitto, ma in Soria e in Ionia, intorno a Gnido, e in Rhodi, e ha sempre foglie, e fiore bianco, e grandissimo odore. Produce piante dalle parti basse, e perciò è gialla nella superficie, levandole il sugo que piantoni. Et levatone il frutto dell’anno precedente intorno al nascere della canicola, subito ne fa un altro: dipoi nel principio dell’uturo fa fiori, nutrendo il verno i suoi parti……. non sono gran fatto differenti dalle castagne le silique dolci, se non che in queste si mangia anchora la corteccia. Esse sono lunghe quanto le dita de gli huomini , sono talhora piegate e larghe come il dito grosso.”
Lucio Giunio Moderato Columella, 4 – 70, nel suo “De Re rustica”, specificò che alcuni chiamano la Siliqua anche “ceration” e diede regole per la piantagione, l’utilizzo dei frutti e l’alimentazione dei suini.
Il medico Galeno di Pergano, 129 – 201, sosteneva che utilizzare le carrube appena colte erano difficili da digerire, anzi producono stitichezza e hanno cattivo sapore, mentre se mature, secche e conservate nella vinaccia, facilitano la diuresi.
Lo scienziato tedesco Ferdinand Hoefer, 1811 – 1878, formulò l’ipotesi che la mitica popolazione dei Lotofagi, presente forse sulle coste della Cirenaica e riportata da Omero nel libro IX dell’Odissea per aver accolto bene i compagni di Ulisse e offerto loro il dolce frutto del loto, loro unico alimento che aveva la caratteristica di far perdere la memoria, non sarebbe altro che la carruba. Su tale ipotesi in botanico Giuseppe Bianca, 1801 –1883, fece notare che, in effetti, il baccello della carruba è caratterizzato da un’elevata parte zuccherina e, da esso, se ne può ricavare un ottimo distillato, rendendo così il frutto “inebriante”.
In effetti, nella Catania di metà Ottocento fu attivo uno stabilimento per la distillazione del fico d’India e, allo scopo di incrementare la propria produzione, introdusse le carrube per l’estrazione di alcool, incrementando notevolmente il proprio fatturato.
All’albero del carrubo si associano anche credenze negative e positive, come che le cadute da quest’albero fossero fatali.
Da questo ne è derivata la parola “dialettale” siciliana di “scarrubbari”, che significa sia cadere rovinosamente e sia l’entrare in casa un ladro con chiave falsa.
A questa negatività si accosta anche la positività, come la “truvatura”, ossia trovare un tesoro nascosto.
Nota è la leggenda del re normanno Guglielmo II, detto “il Buono”, il quale, impegnato in una battuta di caccia nei pressi di Monreale, si fermò a riposare al riparo dell’ombra di un carrubo.
Nel sonno, gli comparve la Madonna, la Quale gli rivelò che, scavando sotto all’albero sarebbe emerso un tesoro, da utilizzare per l’edificazione di un tempio in suo onore.
Risvegliatosi, Guglielmo fece sradicare immediatamente l’albero e, trovato il tesoro, ordinò di costruire il Duomo di Monreale.
Il poeta amante della “grande bellezza”e Vate d’Italia Gabriele D’Annunzio dedicò una poesia alle carrube:
LE CARRUBE
Settembre, son mature le carrube.
Or tu pel caldo mare di Cilicia
conduci dalla riva cipriota
la sàica a scafo tondo e a vele quadre.
………
carichi di baccelli dolci e bruni
conduci verso l’isola dei Sardi.
E vien teco un odor di tetro miele.
La siliqua, che ingrassa la muletta
dall’ambio lene e in carestía disfama
………
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