Continua il primato del Nero d’Avola
di Nino D’Antonio
Alle soglie dell’Unità di Italia, il duca Eduardo di Salaparuta, respingendo la diffusa opinione che la Sicilia producesse solo vini da taglio o da dessert, diede vita nel suo feudo del Corvo a Casteldaccia, nel Palermitano, a due eccellenti vini, un bianco e un rosso, che verranno paragonati ai migliori Sauternes e ai più celebrati Medoc.
Siamo ancora assai lontani dal riscatto dei vitigni autoctoni, ma è il primo segno di quella inversione di tendenza che trent’anni fa darà l’avvio alla stagione del rinnovamento. Un fenomeno che ha finito per capovolgere il destino dei vini siciliani, finalmente sottratti al principio della quantità e dell’anonimato per recuperare il meglio della loro originaria vocazione.
L’aveva capito nel 1443 Al- fonso d’Aragona. Il quale con un editto reale impose il divieto di impiantare in Sicilia uve provenienti da altri territori. Una sorta di Doc ante litteram, spesso violata, fino alla massiccia invasione di vitigni stranieri come il Merlot, il Cabernet Sauvignon e il Syrah, che sconvolgeranno la geografia viticola dell’isola, mortificando la sicura identità delle sue uve più nobili.
Nel tempo – e fino a trent’anni fa – si è venuto così a determinare una caotica produzione su tre fronti: quello dei vitigni autoctoni (Insolia, Grillo, Perricone, Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio, Nero d’Avola, Catarratto); quello delle uve importate, e infine quello nato dagli uvaggi fra queste uve e quelle originarie.
Il tutto all’insegna della maggiore quantità possibile, per sod-disfare soprattutto la costante richiesta del mercato estero (Francia, Spagna e Portogallo in testa), che ha sempre acquistato – e a buon prezzo – i vini siciliani sfusi. Perché il grande sbocco dell’isola è stato sempre questo, se si considera che ancora nell’ultimo decennio, su una media di circa nove milioni di ettolitri l’anno, solo poco più di 600mila sono stati confezionati.
Sono cifre che trovano riscontro nella straordinaria dimensione dell’enologia siciliana. Non va infatti dimenticato che l’isola è il più grande serbatoio viticolo d’Italia. Un patrimonio di oltre 130mila ettari – seguito a notevole distanza anche da regioni leaders, quali la Puglia (108mila) e il Veneto (74mila) – anche se ad esso non corrisponde un adeguato riconoscimento della Doc ai suoi vini migliori.
Così, anno dopo anno, prima l’apertura verso gli enologi di San Michele dell’Adige, poi quella verso l’Università di Bordeaux, poi ancora l’azione costante sul territorio dell’Istituto della Vite e del Vino, e infine il progressivo cambio generazionale hanno recuperato e restituito ai vini di Sicilia la loro irripetibile identità e il sicuro riconoscimento del mercato.
In poco meno di vent’anni, intanto, la viticoltura dell’Isola ha cambiato faccia. Non più una massiccia produzione di Bianchi in ossequio al passato, ma la scoperta di una naturale vocazione per i Rossi, sia riconducibili ai vitigni autoctoni che a quelli stranieri. E qui va detto che anche il Cabernet e il Merlot hanno dato esiti imprevedibili, rivelando potenzialità inespresse nelle regioni d’origine, grazie al particolare, felicissimo clima della Sicilia.
Capofila della riscossa dei Rossi e vino-principe dell’enologia isolana, è il Nero d’Avola. Il suo destino, in passato, si è confuso con quello dei tanti vini che viaggiavano sfusi verso la Francia. Veniva addirittura definito Calabrese, visto che era il solo vino da taglio dell’isola e quelli provenienti dalla Calabria erano gli unici ad avere credito.
Poi, negli anni Settanta, le prime indagini ampelografiche e le prime sperimentazioni. Il Nero è presente per circa dodicimila ettari un po’ in tutta l’Isola, anche se le aree più storicamente vocate sono quelle di Eloro, Pachino e Noto.
Gli esperti fanno una sottile differenza fra il Nero prodotto nella Sicilia Orientale e in quella Occidentale. La prima dà un vino di maggiore finezza e con spiccati sentori di frutta.
Coltivate ad alberello o a spalliera, le uve del Nero sono particolarmente zuccherine e danno vini che raggiungono con facilità i quindici gradi. Di qui i sapienti interventi nelle fasi di vinificazione per tenere sotto controllo gli zuccheri e aumentare l’acidità delle uve.
Alla degustazione il Nero d’Avola si presenta di un rosso rubino intenso, che tende al granato dopo la fase d’invecchiamento. L’aroma è complesso con note di liquirizia, spezie e frutta. Le uve maturano a fine settembre e richiedono una severa selezione, se si vuole che esprimano il meglio delle loro potenzialità. Recenti indagini hanno accertato che il vitigno è ricco di resveratrolo, una sostanza che favorisce l’abbassamento del colesterolo. Il Nero è presente anche nell’uvaggio del Cerasuolo di Vittoria, nel Ragusano, dove si abbina al Frappato.
Avola che dà il nome al vino è una bella cittadina in provincia di Siracusa, da cui dista poco più di venti chilometri. Siamo nell’area del più celebrato barocco siciliano (Noto è a un tiro di schioppo), e la stessa Avola offre compiute testimonianze non solo di Barocco, ma anche di Neoclassico e di Liberty.
Distrutta dal terremoto del 1693, la città, sull’antico tracciato della via Elorina, fu ridisegnata a forma di esagono dal gesuita Angelo Italia, con due strade principali che convergono verso la grande piazza.
Protetta a nord dalle colline degli Iblei, Avola si apre verso la pianura fino alle acque del mare Ionio, con le campagne ricche di viti, di limoni e di mandorli. Famosa è la “Pizzuta”, una mandorla particolarmente indicata per i confetti.
Assai suggestivi i dintorni della città. Cava Grande, a dieci chilometri, è uno straordinario canyon scavato dal fiume Cassibile, che ha anche creato nella roccia un insieme di piccoli laghi.
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